A CLOCKWORK ORANGE
Titolo italiano: ARANCIA MECCANICA
Produzione: 1971 - G.B., Hawk Films Ltd./Polaris Productions/Warner, col., 137 min.
Regia: Stanley Kubrick
Sceneggiatura: Stanley Kubrick dal romanzo di Anthony Burgess
Scenografia: John Barry
Effetti speciali: Pacific Title & Art Studio
Musica: Walter (Wendy) Carlos; brani da Rossini ("Il barbiere di Siviglia", "Guglielmo Tell", "La gazza ladra"), Beethoven ("IX Sinfonia"); Edward Elgar ("Pomp and Circumstance March nn. 1 e 4"), Henry Purcell ("Music on the Death of Queen Mary"), Erika Eigen ("I Want to Marry a Lighthouse Keeper"), Arthur Freed e Nacio Herb Brown ("Singin' in the Rain")
Interpreti: Malcolm McDowell, Godfrey Quigley, Patrick Magee, John Clive, Micheal Bates, Carl Duering, Warren Clark, Paul Farrell, Adrienne Corri, Miriam Karlin, David Prowse
Bande di giovani teppisti scorrazzano per i quartieri di Londra cercando la rissa e terrorizzando poveri sbandati e benestanti borghesi. I "drughi" di Alex, tra uno scontro con una banda rivale, un sosta al Korova Milk Bar ed una violenza ai danni di un innocuo barbone, si introducono nell'appartamento di uno scrittore e ne violentano selvaggiamente la moglie. Quando Alex nel corso di un'ennesima scorribanda uccide una donna, i suoi compagni lo denunciano alla polizia e lui, posto di fronte alla prospettiva del carcere duro, accetta la "cura Ludovico", una terapia che attraverso un bombardamento di immagini violente e la somministrazione di droghe inibisce gli istinti aggressivi. Tornato in libertà Alex subisce la vendetta delle sue varie vittime e dei suoi stessi compagni passati dalla parte della legge, senza poter reagire o difendersi fino a quando, dopo un tentativo di suicidio, si scopre integrato nel sistema.

"In un bar di Londra - scrive Anthony Burgess - ho udito un vecchio dire in dialetto londinese che un tale era altrettanto bizzarro quanto una clockwork orange. Questa espressione mi incuriosì per il suo inverosimile miscuglio di linguaggio popolare e surrealista ..."

Anomalo e disorientante nella misura in cui difficilmente può sollecitare da parte dello spettatore una partecipazione emotiva alle sorti del protagonista, il film coinvolge a livello intellettuale chiamando a riflettere sulle radici del male nella società contemporanea: la violenza gratuita alla quale il giovane Alex si abbandona incondizionatamente, quella scientificamente concepita dal potere e quella ugualmente feroce delle vittime in cerca di vendetta.
La vicenda ha un andamento circolare: il punto di arrivo - la "guarigione" di Alex - rafforza l'assunto iniziale di una violenza come cifra identificativa di un tessuto sociale ipocrita e menzognero giunto ad un irreversibile degrado che distrugge, si rigenera e torna ad autodistruggersi in un ciclo senza vie d'uscita. La città e i personaggi che Kubrik fotografa sono un feroce mascheramento di fragilità. Ciò che appare nasconde una realtà capovolta. Gli edifici e le ville si stagliano tra la luce nebbiosa del mattino o l'oscurità della notte come bastioni o fortezze, ma sono facilmente esposti ai pericoli della strada.
Le divise dei "drughi", il linguaggio gergale, l'occhio dipinto di Alex sono segni identificativi di appartenenza al gruppo, ma traballano sull'assenza interna di dialogo, di lealtà, di amicizia. Il potere stesso è una struttura vuota che finge nel rispetto di un proprio codice formale (il frenetico sbattere di tacchi dei subordinati in divisa che si mettono sull'attenti sembra allontanare ogni dubbio di impotenza) di non conoscere la propria sconfitta risolvendosi a far propria, attraverso la riprogrammazione, la violenza di chi vorrebbe domare. L'arredamento post-moderno del Korova Milk Bar con le sue bambole di plastica che versano latte e droga, i quadri e le sculture nel raffinato appartamento dello scrittore sono la più volgare e mortificante mercificazione dell'arte. Cittadini e potere, vittime e carnefici, teppisti, poliziotti e uomini di sinistra non sono, in questo film, molto diversi gli uni dagli altri: lo sguardo tagliente che Alex "guarito" rivolge allo spettatore fa capire che egli ha compreso la verità.

Kubrick, rileggendo Burgess, esorcizza un suo incubo personale girando quasi tutto in esterni (il bar, le camere dell'abitazione di Alex e lo spogliatoio della prigione sono ricostruiti un un'officina abbandonata). Registra il suono a presa diretta, usa lenti deformanti, focalizza dettagli nei primissimi piani, scompone le inquadrature, colpisce i personaggi con luci dure e taglienti.
Una specie di rigorosa ed impietosa opera di vivisezione scandita da un accompagnamento, intelligentemente scandaloso, di celebri brani musicali tratti da Rossini e Beethoven.

Ai cinefili più attenti Kubrick regala un'autocitazione: la copertina del disco di 2001 Odissea nello spazio nel negozio in cui entra il protagonista.
La carica di violenza contenuta nel film provocò reazioni fortemente polemiche in Gran Bretagna, al punto che il regista, in segno di protesta, ne ostacolò a lungo la distribuzione.

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